gene della criminalità

Il gene della criminalità esiste davvero?

-“Ehi tu, lo sai che la tua faccia somiglia a quella di uno che ha una taglia da duemila dollari?”

-“Già… ma tu non somigli a quello che li incassa…”

Il buono, il brutto e il cattivo

Il gene della criminalità

Numerosi studi di criminogenesi hanno individuato il gene della criminalità nel gene mutato “MAO-A (monoamminoossidasi-A)” localizzato sul cromosoma X.

Il gene codifica per un enzima coinvolto nel metabolismo dei neurotrasmettitori serotonina, noradrenalina e dopamina che sono collegati al comportamento e all’umore. La mutazione che ne riduce l’attività metabolica è statisticamente associata ad un aumento della probabilità di commettere reati gravi o violenze.

È stato dimostrato che i bambini maltrattati che hanno la variante normale del gene non sviluppano comportamenti antisociali da adulti. Purtroppo invece i bambini che hanno la mutazione nel gene MAO-A da adulti hanno un rischio maggiore di sviluppare comportamenti aggressivi verso la comunità.

I tratti distintivi di questi individui sono alti livelli di testosterone, basso QI, abbandono scolastico e il far parte di bande di strada.

La cosa interessante del gene MAO-A è che esso è collocato sul cromosoma X. Pertanto i maschi ne possiedono solo una copia, mentre le donne ne hanno due. Se dunque un maschio ha un allele del gene MAO-A che è correlato alla violenza, non ce n’è un altro che possa fare da contrappeso

Le femmine invece possiedono due copie e quindi se anche possiedono un allele a rischio, ne hanno un altro che può compensarlo. Questa è la ragione per cui la maggioranza delle ricerche su MAOA si è concentrata sui maschi, e del fatto che gli effetti di MAOA sono stati rilevati in generale solo nei maschi.

La criminalità non è solo genetica

Ma può solo la genetica spiegare il comportamento violento di alcuni individui?

Secondo lo psicologo inglese Adrian Raine alla base del comportamento antisociale esiste un perfetto mix di parametri genetici, biologici e sociali. Nello specifico, ha identificato uno sviluppo cerebrale incompleto nella corteccia cingolata posteriore, delle disfunzioni nell’amigdala e delle disfunzioni nell’ippocampo. Tutto questo dimostrato attraverso tomografie sul cervello dei detenuti, applicando il neuroimaging funzionale. Insieme a una predisposizione genetica, Rain, si è soffermato anche sull’importanza dell’aspetto sociale. In particolare, l’accento viene messo sui primi anni di vita di una persona: maltrattamenti e abbandono materno possono far sviluppare nel soggetto un’inclinazione a comportamenti antisociali.

Il ruolo del contesto sociale

La prova inconfutabile dell’influenza ambientale nel campo di studio della violenza venne portata nel 2005 dal neuroscienziato James Fallon, in modo del tutto fortuito. Fallon era uno studioso di neurocriminologia, ma allo stesso tempo lavorava anche sulla malattia di Alzheimer. Un giorno, nell’enorme risma di lastre della ricerca sull’Alzheimer, trovò una scansione che presentava precisamente le caratteristiche di un individuo psicopatico. In questo modo scoprì che non solo tra i pazienti dello studio c’era un potenziale criminale, ma che quella lastra apparteneva al suo stesso cervello. La scansione dei suoi lobi fronto-temporali non lasciava spazio a nessun dubbio: stando alle sue ricerche, il suo cervello era paurosamente simile a quello di un serial killer.

Ma se dall’anatomia del suo encefalo si leggeva chiaramente che James Fallon era destinato ad essere uno psicopatico, perché allora era diventato uno che gli psicopatici li cura di mestiere? La risposta risiede nell’ambiente in cui egli è cresciuto, nei rapporti sociali coltivati nel tempo e nel bagaglio culturale ed esperienziale che – come dimostrato da questo aneddoto – spesso nella vita di un individuo si rivela più “congenito” della genetica stessa.

Una sentenza “unica” in Italia

Con la sentenza n.5 del 1 ottobre 2009 della Corte d’Assise di Trieste è stato determinato per la prima volta in Italia il grado di capacità di intendere e di volere di un imputato, facendo ricorso alle indagini genetiche e a una ricerca strumentale di immagini cerebrali. 

Questa rivoluzionaria sentenza ha concesso all’imputato responsabile di omicidio una riduzione della pena, in quanto nel suo patrimonio genetico emergeva la presenza di geni capaci di renderlo particolarmente reattivo in termini di aggressività e conseguentemente vulnerabile in presenza di situazioni di stress. 

Si è dedotto che era affetto da “vulnerabilità genetica” perché portatore dell’allele mutato MAO-A, in grado, come si è detto, di contribuire a un comportamento impulsivo e aggressivo. 

Non si nasce criminali, si nasce piuttosto con un corredo genetico che, in particolari situazioni, può predisporre a comportamenti antisociali e quindi favorire la commissione di reati: non si può togliere la responsabilità del soggetto che delinque, essendo dotato di libero arbitrio e quindi in grado di discernere il bene dal male. Si rischia infatti, a parità di crimine commesso, di giustificare chi ha un “gene sbagliato”, mentre nella maggior parte dei casi non è così: una predisposizione genetica non ci priva del libero arbitrio.

Chi commette reati anche gravi spesso è una persona che non vuole capire che l’affermazione della propria libertà non deve ledere quella altrui e che l’appartenenza alla società implica il rispetto degli altri e significa adeguarsi alle regole che essa impone.